DA MANDANTE A MANDATO…
Immagine: Christopher Fragapane
Come un leader di una banda ha trovato la salvezza in prigione.
In prigione, ero un mandante.
Il mandante fa parte dei ranghi più alti nel mondo delle bande perché ha il potere di decidere chi viene ferito (o ucciso) e chi no.
Tutto è iniziato quando ero appena adolescente nel centro-sud di Los Angeles, ero il leader nei Locos di Rockwood Street. Mi sono creato una certa reputazione in strada rubando nelle case, scassinando auto, saccheggiando negozi di alimentari e pugnalando membri delle bande rivali. O uccidevi o venivi ucciso: questo era il motto.
Alla fine, mi hanno arrestato. Sono stato condannato a quasi 13 anni per omicidio di secondo grado, insieme a 52 accuse di rapina a mano armata. In realtà emisi un sospiro di sollievo per il fatto che quelle erano le uniche accuse che i poliziotti potevano appuntarmi.
La vita non aveva alcun valore.
In attesa del trasferimento nella prigione di New Folsom, una prigione di massima sicurezza di livello IV vicino a Sacramento, in California, sono “stato ospite” insieme a 120 assassini e criminali violenti, all’interno del Pitchess Detention Center, a nord di Los Angeles.
Alla Pitchess ci si separava: i neri si coalizzavano con altri neri, i bianchi con i bianchi e i latini coi latini. Alla fine in prigione si creavano nuove bande…
Uno dei miei ruoli era il controllo e la distribuzione degli stinchi, dei rozzi coltelli fatti in casa usati per pugnalare altri prigionieri. Ho dormito con 13 di quegli arnesi sotto il materasso.
Quando è scoppiata una rivolta, mi sono assicurato che le persone giuste avessero “il coltello”. Ci furono molte rivolte violente a Pitchess e i detenuti venivano pugnalati e uccisi continuamente. Bastava uno sguardo sbagliato alla persona sbagliata, e per te era finita. La vita non aveva alcun valore.
Dopo circa sei mesi fui trasferito nella prigione di stato di New Folsom. Quando l’autobus mi lasciò nell’edificio principale, vidi delle guardie che camminavano sulle passerelle e imbracciavano i Mini-14, fucili semi-automatici piccoli e leggeri.
Una delle guardie del gruppo in tenuta antisommossa che mi scortavano nel carcere, si schiarì la gola: “Voglio che guardi il cartello alla tua destra”, disse. I miei occhi si posarono su un cartello bianco con scritte rosse che dicevano: “Non verrà sparato nessun colpo di avvertimento”. “In caso di rivolta” continuò il guardiano, “non mireremo ai tuoi piedi, non mireremo alle tue gambe e non mireremo al tuo busto. Mireremo direttamente alla tua testa per ucciderti”.
Quando la guardia se ne fu andata, un’altra mi si avvicinò con dei documenti in mano. “Diaz, seguimi”, mi ordinò. Sono stato condotto all’interno della prigione in una sala visita e la guardia si presentò come coordinatore: “Ascolta attentamente, Diaz”, mi disse: “Sappiamo che sei un una testa calda e un provocatore, quindi sarai messo in isolamento”
Sarei stato rinchiuso in una scatola senza finestre di due metri e mezzo per tre, i miei pasti infilati in una fessura della porta d’acciaio (o “cancello” come lo chiamavo io). Le interazioni sociali con altri detenuti (e guardie) sarebbero stati quasi inesistenti.
L’unica fonte di illuminazione della mia cella era una pesante luce in plexiglas che non poteva essere spenta, il che rendeva difficile dormire e senza orologio, avevo difficoltà a distinguere se fosse giorno o notte. Non c’era niente da fare: niente TV, niente radio, niente libri. Solo i pasti a rompere la monotonia.
I prigionieri di Pitchess mi avevano detto che se non sei determinato, la cella di isolamento potrebbe assolutamente spezzarti. Ci sono stati momenti in cui mi chiedevo se avrei mantenuto la mia sanità mentale.
Gesù ti userà
Dopo circa un anno a New Folsom, ho sentito delle guardie venire verso la mia cella con un annuncio: “Servizio protestante. Qualsiasi detenuto volesse partecipare, si metta all’ingresso della cella”.
Avevo sentito lo stesso annuncio per i cattolici. La religione non era qualcosa che mi interessava. Non sapevo quasi nulla di Gesù, solo che era lui l’uomo su tutti quei crocifissi.
Una volta ero sdraiato sul mio letto, ascoltando le voci che venivano da fuori. Ho sentito una donna anziana dire: “C’è qualcuno in quella cella?” Aveva un accento del sud e una voce molto dolce. “Sì, signora”, disse la guardia, “ma lei non vorrà certo avere a che fare con Diaz? Sta sprecando il tuo tempo”.
“Bene”, rispose, “Gesù è venuto anche per lui”.
Si avvicinò alla cella: “Giovane, posso parlare con te?” Guardando attraverso la fessura aperta della mia porta, non riuscivo a vedere nulla tranne gli stivali della guardia e un paio di gambe sottili.
“Come stai?” chiese. “Non potrei stare meglio!”, fu la mia risposta sarcastica. “Ragazzo”, disse, “Ho intenzione di pregare per te. Ma c’è qualcos’altro che voglio dirti: Gesù ti userà”.
Ormai, ero certo che fosse pazza. Non riusciva a vedere che ero rinchiuso in isolamento? “Non credo che succederà”, dissi. Ma ha insistito: “Giovane, ogni volta che sarò qui, verrò e ti ricorderò che Gesù ti userà”.
Circa un anno dopo, ero sdraiato nella mia cella, a sognare ad occhi aperti, quando mi voltai verso il muro di fronte al mio letto. Su quel muro stava accadendo qualcosa di strano. Era come se venisse proiettato un film… un film sulla mia vita. Mi sono visto come un bambino e camminavo nel mio vecchio quartiere. Assistevo ai miei primi giorni con la banda e ai colpi che facevamo, tutto con dettagli perfetti.
Poi ho visto un uomo barbuto con i capelli lunghi che portava una croce. Mentre camminava a fatica, una folla di persone arrabbiate gli urlava contro. Quando arrivò in cima a una collinetta, uomini dall’aspetto rozzo inchiodarono mani e piedi alle travi di legno e sollevarono la croce in modo che si trovasse tra altri due uomini ciascuno con le proprie croci.
Quest’uomo mi guardò e disse: “Darwin, lo sto facendo per te”. Rabbrividii. A parte le guardie e la mia famiglia, nessuno conosceva il mio vero nome. Tutti mi chiamavano Casey, il mio soprannome da sempre.
Poi ho sentito il suono del respiro che lo lasciava. In quel momento, sapevo che era morto.
Dopo ciò caddi dal letto e finii sul pavimento in mezzo alla cella. Ho iniziato a piangere perché sapevo, in qualche modo, che quell’uomo era Dio Onnipotente, anche se non capivo cosa avesse fatto per me. Dopo essere caduto a terra, sentivo che dovevo mettermi in ginocchio. Ho iniziato a confessare i miei peccati: Dio, mi dispiace di aver pugnalato così tante persone. Dio, mi dispiace di aver derubato così tante famiglie.
Ad ogni nuova confessione, sentivo un altro peso scivolare dalle spalle. Quando ho finito, sapevo che era successo qualcosa di molto importante.
Ho chiesto di vedere un cappellano, che ha aperto la sua Bibbia e mi spiegato chi era Gesù e poi aggiunto che ciò che avevo vissuto in quella cella era l’esperienza della salvezza. Mi ha consegnato una Bibbia e mi ha esortato a iniziare a leggerla.
Trascorrevo cinque o sei ore a leggere quella Bibbia, poi mi addormentavo, mi svegliavo e facevo flessioni e esercizi prima di riprendere da dove avevo interrotto. Non capivo la metà di quello che stavo leggendo, ma questo non mi ha distratto dal continuare.
Questo è stato l’inizio del mio viaggio di fede. Alla fine, ho terminato il periodo di isolamento e sono stato inserito nella prigione principale, insieme agli altri detenuti dove sono stato picchiato per essere un cristiano e aver voltato le spalle ai miei compagni di banda. Ma stavo bene, perché non ero più un mandante. Avevo trovato una nuova chiamata: raccontare ad altri detenuti di Gesù.
Casey Diaz è l’autore di The Shot Caller: La fuga miracolosa di un gangbanger latino da una vita di violenza a una nuova vita in Cristo (Thomas Nelson). Vive a Los Angeles, dove possiede un’attività di cartellonistica e lavora come pastore part-time.